I dati illustrati al meeting scandinavo riguardano gli studi di fase clinica I/II Northstar (HGB-204) e di fase clinica III Northstar-2 (HGB-207) sulla terapia genica LentiGlobin. L’idea è quella di utilizzare un vettore lentivirale che trasporta una versione corretta del gene Hbb della beta-globina, uno dei componenti dell’emoglobina, mutato o assente nella beta talassemia. A bordo di questo ‘mezzo di trasporto’ il gene terapeutico viene traghettato all’interno delle cellule staminali ematopoietiche prelevate dal paziente, che una volta modificate gli vengono reinfuse.
La beta talassemia è la malattia ereditaria del sangue più diffusa al mondo: ne sono affetti circa 300.000 pazienti, di cui 6.000-7.000 in Italia, con un’incidenza più alta nelle due Isole maggiori, nelle regioni meridionali del Paese e nell’area del Polesine. La distribuzione geografica coincide, per un legame ormai noto da tempo, con le aree che in passato erano caratterizzate da una maggiore diffusione della malaria, lo stato di portatore della condizione talassemica conferendo una protezione contro il plasmodio della malaria. Due portatori del gene mutato hanno 1 probabilità su 4 di avere un figlio malato, 2 su 4 di avere un figlio portatore sano della malattia e 1 su 4 di avere invece un figlio che non sia neanche portatore del carattere.
Secondo il professor Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di Oncoematologia Pediatrica e Terapia Cellulare e Genica IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma i risultati della ricerca HGB-207 sono straordinari. “Dei pazienti trattati da almeno 6 mesi, 7 su 8 non hanno più bisogno di trasfusioni – spiega Locatelli – Una potenziale rivoluzione che cambia la prospettiva di sopravvivenza di questi malati”, per i quali oggi l’unica alternativa alle ripetute trasfusioni è il trapianto allogenico di staminali ematopoietiche. Strada rischiosa e non sempre percorribile”.
Lo studio di fase III ha arruolato al momento 11 pazienti con beta talassemia trasfusione-dipendente e genotipo beta-positivo, che mantengono cioè una produzione residua di emoglobina, ma incompatibile con la vita. “Il follow-up mediano è di 8,5 mesi e degli 8 pazienti che hanno superato i 6 mesi, 4 dei quali sono italiani – precisa Locatelli – 7 sono arrivati a produrre grazie alla terapia genica almeno 7,6 grammi di emoglobina per decilitro di sangue, che hanno portato l’emoglobina totale a circa 11-13 g/dl”. Un livello che oggi permette loro di vivere senza trasfusioni da un periodo compreso fra 4,7 e 15,1 mesi: oltre 1 anno. Secondo Locatelli, “larga parte di tutti i pazienti trasfusione-dipendente potrebbe beneficiare di una terapia genica”.
“L’unica soluzione fino a qualche anno fa disponibile per eradicare in un paziente la beta talassemia era il trapianto allogenico di midollo osseo, in grado di correggere definitivamente il difetto nella produzione di emoglobina che caratterizza questi pazienti. – spiega Locatelli – ma questa procedura porta con sé limitazioni e rischi.
“Il principio della terapia genica consiste nell’introdurre nelle cellule malate dei pazienti una copia sana del gene difettoso – aggiunge Locatelli – Questo processo si ottiene “infettando” le cellule del soggetto malato attraverso un virus inattivato, e quindi privato del suo potere dannoso per l’uomo, appartenente alla famiglia dei lentivirus. Tramite tecniche sofisticate di bioingegneria cellulare, questo gene viene integrato nel Dna delle cellule emopoietiche proprie del paziente. Questo processo permette di ottenere, nella cellula geneticamente corretta, la sintesi della catena beta globinica che, di conseguenza, permetterà di formare compiutamente la complessa molecola dell’emoglobina”.
Secondo gli esperti la terapia genica si presenta come una soluzione terapeutica più sicura del trapianto allogenico di cellule emopoietiche poiché si basa sull’uso di cellule proprie del paziente. Questo consente di minimizzare i rischi della procedura e rende ragione del possibile impiego di questo tipo di terapia anche i pazienti in età adulta. “E’ una soluzione rivoluzionaria – conclude Locatelli – che permetterà di migliorare notevolmente la qualità di vita dei pazienti affetti da beta talassemia trasfusione dipendente. I pazienti attualmente trattati nelle sperimentazioni cliniche in corso, anche in Italia, mostrano di essere indipendenti da trasfusione dopo un periodo di osservazione che supera, in alcuni soggetti, addirittura i 3 anni”.
Fonte: La Repubblica
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